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7-14 giugno 1914: 100 anni fa la Settimana rossa incendiava la Romagna

Sara Samorì la racconta in un interessante saggio di recentissima pubblicazione

7-14 giugno 1914: 100 anni fa la Settimana rossa incendiava la Romagna

Ad Ancona, il 7 giugno 1914, era stato organizzato un raduno per protestare contro il militarismo e per manifestare a favore di Augusto Masetti e Antonio Moroni, due giovani renitenti alla leva. Il primo era stato rinchiuso in manicomio criminale perché accusato di aver sparato a un colonnello prima di partire per la guerra italo-turca. Il secondo, un sindacalista-rivoluzionario, era stato inviato in una Compagnia di Disciplina per via delle sue idee, considerate sovversive e pericolose. 

Quel 7 giugno però era una giornata piovosa e per questo si decise di spostare il comizio a Villa Rossa, sede del partito repubblicano di Ancona. Alla manifestazione, a cui parteciparono circa 600 persone, presero la parola il segretario della Camera del Lavoro, Pietro Nenni, gli anarchici Sigilfredo Pelizza ed Errico Malatesta e Oddo Marinelli per i giovani repubblicani. 

Terminato il comizio, si decise di muovere in corteo in direzione della vicina piazza Roma, dove si stava tenendo un concerto della banda militare. 

All’entrata della piazza la polizia era stata distribuita su due ali, in modo tale da bloccare l'accesso e far defluire la folla verso la periferia della città. Dopo aver richiamato l’attenzione dei manifestanti con squilli di tromba, la forza pubblica iniziò a menar colpi alla rinfusa, mentre dai tetti e dalle finestre venivano lanciati su di loro mattoni e pietre. 

Fu allora che si udirono alcuni colpi di pistola. Secondo i dimostranti erano stati esplosi da una guardia di pubblica sicurezza, al contrario i carabinieri sostennero che erano partiti dalla folla. Per questo le forze dell’ordine aprirono il fuoco, sparando circa 70 colpi sui manifestanti. Al termine degli scontri, tre giovani restarono a terra feriti mortalmente: l'anarchico Attilio Gianbrignoni, 22 anni, era morto sul colpo mentre Antonio Casaccia, 24 anni, e Nello Budini, 17 anni, entrambi repubblicani, cessarono di vivere all'ospedale. Si contarono inoltre cinque feriti tra la folla e diciassette tra i carabinieri. Fu un vero e proprio dramma sulle cui responsabilità ancora oggi gli storici stanno dibattendo. Pietro Nenni, qualche tempo dopo, disse che a volere l'eccidio era stata la polizia di Ancona, che lo aveva provocato e premeditato in combutta con le forze reazionarie. Certo è che l’ondata di indignazione dilagò immediatamente per tutta la città e da qui si propagò velocemente a Marche, Romagna, Toscana e anche ad altre parti d'Italia.

Su proposta di Errico Malatesta, il Comitato Centrale del Sindacato dei Ferrovieri dichiarò lo sciopero di categoria, che ebbe inizio il 9 giugno, lo stesso giorno in cui si tennero, senza particolari incidenti, i funerali dei tre manifestanti uccisi.

In Romagna, dove il movimento repubblicano e quello anarchico erano particolarmente forti, la rivolta divampò in un lampo. In alcune piazze fu eretto l’albero della libertà, antico simbolo ripreso dalla Rivoluzione francese. Chiese e i palazzi del potere vennero presi d’assalto e dati alle fiamme. Per arrestare lo spostamento delle truppe, i dimostranti bloccarono le linee ferroviarie e per impedire le comunicazioni tagliarono i fili del telegrafo. Al tempo stesso venne interrotta la distribuzione dei giornali, così che le false notizie riguardo al successo della rivoluzione fomentassero l’entusiasmo degli insorti. 

Scriveva l’anarchico Errico Malatesta, il 12 giugno sulle pagine di «Volontà»: “Non sappiamo ancora se vinceremo, ma è certo che la rivoluzione è scoppiata e va propagandosi. La Romagna è in fiamme; in tutta la regione da Terni ad Ancona il popolo è padrone della situazione. A Roma il governo è costretto a tenersi sulle difese contro gli assalti popolari: il Quirinale è sfuggito, per ora, all’invasione della massa insorta, ma è sempre minacciato. A Parma, a Milano, a Torino, a Firenze, a Napoli agitazioni e conflitti. E da tutte le parti giungono notizie, incerte, contraddittorie, ma che dimostrano tutte che il movimento è generale e che il governo non può porvi riparo. E dappertutto si vedono agire in bella concordia repubblicani, socialisti, sindacalisti ed anarchici. La monarchia è condannata. Cadrà oggi, o cadrà domani, ma cadrà sicuramente e presto”.

Lo sciopero generale durò un paio di giorni ma la successiva mobilitazione dell'esercito convinse il sindacato ad abbandonare la lotta. Dopo aver tenuto in scacco per una settimana intere zone del Paese, il moto rivoluzionario andò esaurendosi. Motivi principali del fallimento furono la mancanza di unità e l’incapacità di organizzare le forze e dare loro un programma condiviso.

La Settimana rossa lasciò però un segno profondo nell’immaginario popolare romagnolo, rappresentando il momento in cui il proletariato era riuscito, sia pure per un breve attimo, a toccare l’ebbrezza della rivoluzione sociale. 

“Furono sette giorni di febbre – dichiarò poi Pietro Nenni – durante i quali la rivoluzione sembrò prendere consistenza di realtà, più per la vigliaccheria dei poteri centrali e dei conservatori che per l'urto che saliva dal basso... Per la prima volta forse in Italia colla adesione dei ferrovieri allo sciopero, tutta la vita della nazione era paralizzata”.

Pochi giorni dopo, il 28 giugno 1914, i colpi esplosi a Sarajevo contro l’arciduca Francesco Ferdinando spostarono l’attenzione mondiale e anche quella italiana sulle dinamiche che condussero in breve alla tragedia della Prima Guerra mondiale. Dopo meno di un anno di aspra contrapposizione tra interventisti e neutralisti, nel maggio del 1915 anche l’Italia sarebbe entrata in guerra.

 

La Settimana Rossa 7-14 giugno 1914. La libertà non si vota. Si strappa

“Negli anni turbolenti e drammatici che precedettero la prima guerra mondiale, l’Italietta dell’età giolittiana, attraversata dai fermenti rivoluzionari di repubblicani, anarchici e socialisti, assistette all’improvvisa fiammata della cosiddetta Settimana Rossa, nata ad Ancona dal seno di una manifestazione pacifista finita nel sangue. La fiammata insurrezionale assunse una particolare virulenza in Romagna, dove parve sfociare in una vera e propria rivoluzione. Lo sciopero generale immobilizzò le città, le bandiere rosse e nere di repubblicani, socialisti e anarchici corsero le strade, in un movimento di popolo agitato da tensioni ed entusiasmi, come se si fosse alla fine di un mondo e all’inizio di una nuova epoca. Renato Serra ci consegna l’immagine di città che rombavano come alveari irritati, ma anche ci dà conto della fragilità del movimento; Rino Alessi rappresenta con particolare vivacità, nei suoi articoli di allora e poi in Calda era la terra, l’epopea di quei giorni straordinari in città e paesi del Ravennate.

Il libro di Sara Samorì ricostruisce, in una sintesi suggestiva e coinvolgente, la grande avventura della Romagna rossa, rendendocene i colori, le passioni, le attese, i protagonisti e, infine, il rapido spegnersi del fervore rivoluzionario, come imploso in se stesso. Penserà la grande guerra a trascinare altrove la vita e la morte degli uomini”. (dalla quarta di copertina)

 

Sara Samorì è assegnista di ricerca presso l’Università di Verona. Si occupa di storia dell’emigrazione politica nell’Ottocento, di storia del Risorgimento e delle relazioni internazionali. Ha dedicato i suoi studi alla storia del mazzinianesimo e repubblicanesimo nei secoli XIX e XX e alla storia americana e alle relazioni italo-americane di fine Ottocento. Nel 2012 ha pubblicato il saggio “Il ritorno degli esuli nell’opera collettanea “La Romagna nel Risorgimento” (Laterza).

Da giugno 2014 Sara Samorì è assessore del Comune di Forlì. A lei il neosindaco Davide Drei ha affidato le deleghe allo Sport e ai Quartieri e Partecipazione.


Marco Viroli

venerdì 27 giugno 2014