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Il forlivese che partecipò alla Disfida di Barletta

Oggi sarebbe un pilota di moto GP?

Il forlivese che partecipò alla Disfida di Barletta

Strana razza quella dei romagnoli, un tempo violenta e spietata, votata alla guerra! Nel Medioevo, per campare, i romagnoli spesso diventavano condottieri o soldati di professione. Scrive a tal proposito Aristarco (alias Roberto Casalini) nel suo libro “Che vigliacaz de rumagnôl spudé” (Il Ponte Vecchio, Cesena, 2009): dalla Romagna «terra di violenze e di sangue … repubbliche, papi,  sovrani e signori trassero gran parte delle loro milizie di ventura: la Romagna del Quattro e Cinquecento è uno straordinario bacino di combattenti e la grande matrice di celebri condottieri. Vengono da qui il primo grande capitano di ventura della storia italiana, Alberico da Barbiano e - alla rinfusa - Uguccione della Faggiuola, Guido da Montefeltro, Guidarello Guidarelli, Sigismondo Pandolfo Malatesta, Muzio Attendolo Sforza…». Quest’ultimo in particolare diede origine a un’importante discendenza «che annovera tra i suoi più grandi il figlio Francesco Sforza, signore di Milano, e il suo tardo nipote Giovanni dalle Bande Nere, il figlio di Caterina Sforza, l’ultimo dei grandi capitani di ventura della storia italiana…». Fino ad arrivare a Cosimo de’ Medici, primo granduca di Toscana, figlio di Giovanni dalle Bande Nere e Maria Salviati.

 

Oggi, in tempo di pace, i romagnoli non sono più costretti per vivere a diventare soldati di ventura. È però facile cogliere una certa analogia tra quell’antica occupazione e l’attuale professione del motociclista. I romagnoli moderni non salgono più a cavallo per combattere e preferiscono montare sulla moto e sfidare in pista altri piloti in un moderno palio che si rinnova ogni due settimane circa per sette mesi, periodo di durata del Campionato del Mondo Moto Gp. La Romagna rappresenta poco più del due per cento del territorio dell’Italia intera, tuttavia quando si tratta di aprire il gas non la batte nessuno: oltre venti titoli mondiali vinti da piloti romagnoli, senza contare quelli nati tra San Marino e uno spicchio di Marche e Toscana perché allora il conto salirebbe ulteriormente. Non può essere solo un caso che qui siano nati Valentino Rossi, Andrea Dovizioso, Loris Capirossi, Marco Simoncelli, Marco Melandri, Fausto Gresini, Pier Paolo Bianchi, Mario Lega e tutti gli altri che li hanno preceduti, tra cui voglio ricordare il grande forlivese Otello Buscherini. Loris Reggiani, altro grande campione romagnolo, racconta in un’intervista di qualche tempo fa: «È che qui [in Romagna, ndr], quando esci di casa e vai in piazza, al bar o in parrocchia, la gente mica parla di calcio ma di moto e di corse, cilindrate e sorpassi. È una terra di circuiti - Imola, di Misano - e di grandi aziende: dalla Benelli di Pesaro alla Ducati che sta in Emilia ma è comunque vicina ».
Non è però mia intenzione parlare in quest’articolo di motociclismo, quanto piuttosto ricordare un soldato di ventura di cui, in gran parte, si è persa traccia nella storia, ma il cui nome in Romagna è ancora molto conosciuto: Romanello da Forlì.
Romanello, o Sebastiano Romanello (XV secolo - 1525) non doveva essere nobile d’origine, altrimenti qualche notizia in più di lui e della sua vita sarebbe giunta a noi rispetto alle scarne che andiamo a riportare. Con ogni probabilità apparteneva a una famiglia agiata, forse commercianti di bestiame, poiché, a quell’epoca, per l’acquisto di un corredo da cavaliere era necessario sostenere costi considerevoli. È inoltre ragionevole supporre che egli sia nato intorno al 1465, poiché già nel marzo del 1487 il suo nominativo compariva a Matera in alcune “cedole di pagamento” per servigi da lui resi in qualità di uomo d’arme.
Romanello è noto soprattutto per essere stato uno dei tredici cavalieri italiani che presero parte alla Disfida di Barletta. Il 13 febbraio 1503, nella piana tra Corato e Andria si tenne una giostra cavalleresca, una vera e propria disputa fra tredici cavalieri italiani e altrettanti francesi, per lavare l’onta provocata dalle parole denigratorie pronunciate da Charles de la Motte nei confronti del valore italiano. È evidente che già allora tra francesi e italiani non correva buon sangue. La “Disfida” terminò con una netta vittoria degli italiani. Nel corso della storia, il glorioso fatto d’arme fu preso a simbolo di riscossa nazionale, specie in periodi in cui l’Italia era contesa tra potenze straniere (Francia, Spagna, Austria, Germania). Ai tempi dell’epico combattimento, Romanello era all’apice della sua carriera e aveva circa 38 anni.
Dopo Barletta, Romanello prestò servizio, oltre che in Romagna, principalmente in Italia Centrale e meridionale (Basilicata, Puglia,Lazio, Abruzzo). Il lunedì di Pasqua del 1512, già avanti con gli anni, prese parte alla battaglia di Ravenna e venne fatto prigioniero dai francesi.
Il lento declino fisico di Romanello ebbe inizio proprio allora. Anche le condizioni economiche non più floride contribuirono alla sua decadenza. Da documenti dell’epoca risulta infatti che il suo nome era spesso legato a “cedole di pagamento” (le odierne “buste paga”) su cui figuravano varie trattenute per debiti non pagati. Non a caso, il più delle volte i debiti erano stati contratti per l’acquisto di cavalli, “bene di consumo” fondamentale nell’equipaggiamento di ogni rispettabile cavaliere.
Non abbiamo dubbi quindi che se Romanello, come altri soldati romagnoli di ventura, fosse nato oggi, i debiti li avrebbe contratti non per comprare un cavallo, quanto piuttosto per acquistare potenti motociclette da pista.
Nel 1523 si trasferì a Milano, poi ad Asti. Alcuni studiosi sostengono che morì il 24 febbraio del 1525 nella battaglia di Pavia, per altri, dopo questo ennesimo combattimento contro i francesi, si ritirò a vita privata nella natia Forlì. In ogni caso, come anno di decesso tutti concordano sul 1525.
Scrive M. Ruggiero sulla rivista online «Il Fieramosca»: « Nel 1903, in occasione del quarto centenario della Disfida, l’avv Giovanni Bellini, allora sindaco della città romagnola, prese parte alle celebrazioni. Per l’occasione in cima al campanile di San Mercuriale venne issata una campana chiamata “Romanella”, con un’epigrafe ricordo».
Cento anni dopo, nel 2003, in occasione del quinto centenario della Disfida di Barletta, non ci risulta che Romanello sia stato ricordato a Forlì in alcun modo. Ci appare perciò opportuno strappare dall’oblio al quale è stata destinata questa figura di soldato impavido, simbolo di coraggio e orgoglio e dell’indomabile spirito di riscatto degli italiani, per troppi anni tenuto represso dall’invasore straniero.


Marco Viroli

lunedì 11 marzo 2019