Le tagliatelle
Alla ricerca dell'identità culinaria del Forlivese e della Romagna. Quarta parte
La preparazione e la cottura di una minestra, può essere anche il pretesto per raccontare, o rammentare, scampoli della storia recente, come ha fatto Tonino Guerra con il testo che propongo e che serve anche per ricordare un’altra pietanza amata da tutti i romagnoli e da chi frequenta le nostre zone.
Le tagliatelle sono, infatti, un altro piatto “mitico” della Romagna. Un tempo tirate in ogni casa dalla brava “azdora”, continua ad essere un cibo in vetta alle classifiche dei desideri dei buongustai. Sono sempre di più i ristoranti, le trattorie e gli agriturismi che propongono tagliatelle “fatte in casa”, alla vecchia maniera.
Tonino Guerra ha “raccontato le tagliatelle immaginarie della prigionia”. Era il Natale del 1944 e si trovava prigioniero in Germania in un campo di concentramento, “con una tuta in prestito, senza pane, lontano da casa e senza l’amore di nessuno. Nei giorni più disperati e terribili della fame, aiutato dalla mia predilezione per le tagliatelle al ragù, mi ritrovai a raccontare tagliatelle immaginarie, ai romagnoli e agli italiani, prigionieri con me nelle baracche di un lager tedesco. Tra i mangiari, quello che riscuoteva maggior successo gastronomico, erano le tagliatelle di mia madre. Quando le descrivevo, la fantasia dei compagni si scatenava e suscitava emozioni, quasi palpabili, di gratificazione dello stomaco e della memoria, non senza allegrezza di cibo. Parlavo della madia di casa, entro la quale mia madre impastava una montagnola di farina bianca con tante uova di giornata, di un pollaio periferico di Santarcangelo, lavorandole con impegno ed energia, considerando che si trattava di una donna piccola ed esile. Poi, sul tagliere azzurro, con l’aiuto del mattarello, assottigliava l’impasto, ottenendone una bella sfoglia, rotonda, sottile, morbida, setosa, intatta, dal bel colore giallo intenso.
Raccontavo poi, e tutti pendevano dalle mie labbra, deglutendo di già tanta saliva, delle tagliatelle tagliate con mano abile e ritmata, raccolte dapprima a mucchietti e poi stese allineate nell’ampio tagliere. Poi tutte insieme fatte cadere nell’acqua bollente e fumante della pentola, per una rapida scottatura. Appena salite in superficie, venivano scolate, accolte nella zuppiera, per essere condite con la forma grattugiata e il ragù di carne. Tutte le operazioni venivano raccontate ed eseguite con una fantasia “reale”. Specialmente quando con marcati gesti, distribuivo abbondanti porzioni “invisibili” a tutti, allucinati, incantati, emozionati, in un certo senso “appagati” con gli occhi sgranati e la fantasia della fame. Non mancavano coloro che prendevano il bis! Benedette Tagliatelle”.
Chi è tornato dai campi di concentramento ha potuto riassaporare quelle vere, come possiamo fare ancora oggi. Ci sono invece usanze completamente sparite, come quella del pranzo o della cena in occasione di un funerale, anche questo un tratto distintivo della Romagna di un tempo.
Il pranzo dei morti
In genere il cibo, il mangiare, le pietanze servite generano allegria come succede con i cappelletti, di cui si è scritto in precedenza, e con le tagliatelle. Non bisogna dimenticare, però, che anche i pranzi e le cene funebri seguivano precise indicazioni. Era importante consumare cibo per sconfiggere la morte e il pranzo funebre esprimeva solidarietà e unione tra chi era rimasto con parenti e amici. Veniva preparato da una nonna o donna anziana, non della famiglia dove si era verificato il lutto, ma da una vicina di casa in modo che nessuno dei familiari del defunto potesse toccare il cibo e quindi evitare “contaminazioni” con la morte. Solitamente erano previsti i manfrigoli (o monfettini o malfattini) in brodo, il relativo lesso, un umido, pane e vino.
Graziano Pozzetto nel volume “Le minestre di Romagna” elenca le varie usanze presenti nel territorio citando le relative fonti: “Lo studioso Cirelli testimonia grandissime pignatte di ceci o di altri legumi, che nei giorni non di vigilia, potevano essere caratterizzate da carne, mangiari riservati ai vivi, di ritorno dal cimitero. Anche Giovanni Battara, menziona una minestra di ceci, che costituiva il pranzo del morto, anche nel riminese, durante l’Ottocento”.
All’inizio del XIX secolo a Forlì veniva preparata una minestra in brodo con carne grossa di manzo, servita poi come lesso. In genere vigeva l’obbligo dei munfriguli, che tutti potevano mangiare nella misura di un piatto fondo o di una scodella. Veniva sconsigliato il bis, in quanto poteva essere interpretato come assenza di dispiacere nei confronti del defunto.
Gabriele Zelli
domenica 21 marzo 2021